È solo la fine del mondo




SCHEDA TECNICA__________________
regia
Xavier Dolan
soggetto
tratto dall'omonima pièce di Jean Luc Lagarce (1990)
sceneggiatura
Xavier Dolan
fotografia
André Turpin
montaggio
Xavier Dolan
scenografia
Colombe Raby
musica 
Gabriel Yared
suono
Sylvain Brassard
effetti speciali
Alchemy 24
interpreti
Gaspard Ulliel... Louis
Nathalie Baye... la madre
Léa Seydoux... Suzanne
Vincent Cassel... Antoine
Marion Cotillard… Catherine
(…)
produttore
Nancy Grant
Xavier Dolan
Sylvain Corbeil
Nathanaël Karmitz
Elisha Karmitz
Michel Merkt
Patrick Roy (produttore esecutivo)
produzione
Sons of Manual
MK2 Productions (co-produzione)
distribuzione italiana
Lucky Red
data uscita (Italia)
7 dicembre 2016









Il film ha subito una brutta accoglienza a Cannes, dove era presentato in Concorso, pare che il “fenomeno” canadese abbia perso l’appiglio con la critica e i fans. Improvvisamente, forse per le troppe aspettative, l’aura che gli hanno imbastito addosso ha perso di consistenza. 
Francamente non si capisce perché il virtuosismo estetico, l’estenuante ricerca dell’inquadratura originale che pare voglia dimostrare, magari anche con presunzione, la possibilità di comunicare da sola le emozioni provate dai personaggi, debba essere necessariamente considerato un difetto. Probabilmente, e lo stesso trattamento lo hanno avuto anche altri “sfacciati geni” prima di lui, il fatto stesso che il successo porti in dote produzioni hollywoodiane o attori di grido scombussola le aspettative dei critici militanti che credono, forse ancora, nelle rivoluzioni. Purtroppo non solo il reale racconta i sentimenti, le speranze, i sogni o le debolezze, la sofferenza, la morte ma anche l’invenzione e la pignoleria ossessiva di perseguire una propria idea che oltretutto, il più delle volte, necessita di una lettura non scontata. Per quanto mi riguarda ben vengano i primi piani assurdi, la musica invadente che serve a creare l’atmosfera, le smorfie di attori belli e bravi che abbattono la noia.
Nel film si assaporano atmosfere vagamente fassbinderiane, dove in un monotono ambiente casalingo si racconta di persone insopportabili perché, malgrado tutto, sono normali, una famiglia banale e di provincia come tutti noi, ovvero banali provinciali incapaci anche davanti ad uno specchio di riconoscersi.
La piattezza non salvaguarda e mentre il mondo continua a girare l’angoscia pervade l’anima e il senso di finitudine diventa consapevolezza. La storia propria è tempo trascorso, i ricordi sono avvenimenti reali che non lasciano scampo alla speranza. 
Il cuccù esce dal suo orologio, fa danni e poi rientra: forse Louis è uscito dal suo nascondiglio per svolazzare tra i “cristalli”, fare o subire danni per poi morire. (Lemmy Ventura)






PRESSBOOK_________________________

NOTE DI REGIA
Eravamo nel 2010 o nel 2011, non ricordo.
Qualche tempo dopo J’ai tué ma mère, ero andato a trovare Anne Dorval ed ero seduto nella sua cucina, dove ci ritrovavamo sempre per parlare, raccontare, guardare delle foto o anche, spesso, per stare in silenzio. Quella volta mi aveva parlato di una pièce straordinaria che aveva avuto il piacere di interpretare intorno al 2000. Mai, mi raccontava, le era capitato di dire o di interpretare delle cose scritte e pensate in quel modo, espresse in una lingua così fortemente particolare. Era convinta che dovessi leggere assolutamente quel testo, conservato nel suo ufficio, con tutte le annotazioni da lei scritte dieci anni prima: annotazioni sull'interpretazione, sulle posizioni in scena e altri dettagli scritti al margine dei fogli.
Così mi sono portato a casa quel fascicolo imponente, stampato su fogli A2. La lettura si annunciava faticosa. E purtroppo non ne sono rimasto affascinato, come Anne immaginava. Ad essere sincero, avevo provato al contrario una sorta di disinteresse, e forse anche di antipatia per il modo in cui era scritto. Nei confronti della storia e dei personaggi avvertivo un blocco intellettuale che mi impediva di apprezzare la pièce tanto elogiata dalla mia amica. Ero sicuramente troppo preso dall'impazienza di lavorare ad un nuovo progetto o di immaginare il mio prossimo taglio di capelli per comprenderne la profondità dopo quella prima lettura superficiale. Così ho messo "Juste la fin du monde" da parte, e con Anne non ne abbiamo più parlato.
Quattro anni dopo, finito Mommy, mi è tornato in mente quel testo con la copertina blu, allineato nella libreria del salone, sullo scaffale più alto. Il formato era così grande che superava di molto gli altri libri e documenti tra i quali era infilato, alzava la testa, come se sapesse di non poter essere dimenticato a lungo.
Quell'estate ho riletto – o, per meglio dire, ho letto davvero- "Juste la fin du monde". Più o meno a pagina 6 ho capito che sarebbe stato il mio prossimo film. Il mio primo in età adulta. Finalmente ne capivo il testo, le emozioni, i silenzi, le esitazioni, l'irrequietezza, le inquietanti imperfezioni dei personaggi descritti da Jean-Luc Lagarce. A discolpa della pièce, non credo che all'epoca mi fossi impegnato a leggerla seriamente. A mia discolpa, credo che se anche ci avessi provato, non sarei riuscito a capirla. Il tempo sistema le cose. Anne, come sempre o quasi, aveva ragione. (Xavier Dolan)



ADATTARE LAGARCE
Quando ho cominciato a dire che E' solo la fine del mondo sarebbe stato il mio prossimo film, il progetto è stato accolto da una specie di benevolo scetticismo misto a preoccupazione. I dubbi erano espressi soprattutto dai miei amici. Anne, in particolare, Serge Denoncourt, o Pierre Bernard, che erano stati entrambi nella pièce messa in scena a Montréal nel 2001. Anne mi aveva spinto a leggere quel testo che secondo lei era scritto su misura per me, ma si chiedeva se un adattamento sarebbe stato possibile... «Come farai a rispettare la lingua usata da Lagarce?» mi chiedeva. «E' proprio la lingua a rendere questo testo qualcosa di notevole e di unico. E non è affatto cinematografica... E se rinunci al modo che ha Lagarce di usare il linguaggio, che interesse c'è a farne un adattamento?». 
Ma io non volevo rinunciarci. Al contrario, la sfida per me consisteva nel rispettare quanto possibile il testo.
I temi affrontati da Lagarce, le emozioni dei personaggi, urlate o soffocate, le loro imperfezioni, la loro solitudine, i loro tormenti, i loro complessi di inferiorità... in Lagarce tutto mi era familiare, e lo è senz'altro per la maggior parte di noi. Ma la lingua, quella, non la conoscevo. Era una cosa nuova. Intessuta di goffaggini, di ripetizioni, di esitazioni, di errori di grammatica... Laddove un autore contemporaneo avrebbe depennato automaticamente tutti gli elementi superflui e ridondanti, Lagarce li manteneva, li celebrava. I personaggi, nervosi e intimoriti, nuotavano in un mare di parole talmente agitato che ogni sguardo, ogni sospiro tra le righe diventava – o sarebbe potuto diventare – l'equivalente di un momento di bonaccia in cui gli attori avrebbero fermato il tempo.
Volevo che le parole di Lagarce fossero dette così come erano state scritte. Senza compromessi. E' in quella lingua che risiede la sua ricchezza, ed è attraverso quella lingua che la sua opera si è
affermata nel tempo. Edulcorarla avrebbe significato banalizzare l’autore. Non mi importa che si “senta” il teatro in un film. Che il teatro nutra il cinema... non è forse vero che teatro e cinema
hanno bisogno uno dell'altro?










RASSEGNA STAMPA____________________

- Il ragazzo di Cannes
Dolan, 27 anni, divide con un film su famiglia e malattia: scavo nell'animo umano ma ho imparato da Titanic.
(V. Cappelli - Corriere della Sera - 20/05/2016)

- Le stelle di Mereghetti
(P. Mereghetti - Corriere della Sera - 20/05/2016)

- Croisette
(C. Piccino - il manifesto - 21/05/2016)

- L'assordante cacofonia dell'universo familiare
Gran Premio della Giuria allo scorso Festival di Cannes, ritrova le ossessioni del giovane regista canadese. 
(C. Piccino - il manifesto - 7/12/2016)




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